La morte del padre e le nozze gay

di Massimiliano Fiorin


C’è l’assenza del padre alla base delle nozze tra omosessuali. Anche in Francia, la nuova legge sul matrimonio ha trasferito sul piano della civiltà giuridica una questione che – nonostante le pressioni degli ideologi del gender – fino a pochi anni fa era ancora impensabile, o quanto meno rimaneva confinata nell’ambito delle schermaglie dialettiche.

Il padre, infatti, è prima di tutto autore e garante della legge. Un ruolo simbolico, ma non per questo meno importante. Carl Gustav Jung aveva perfettamente colto questo aspetto: “Il padre è auctor e autorità, e quindi legge e Stato. È ciò che nel mondo si muove, come il vento, è ciò che crea e guida con pensieri invisibili, immagini d’aria. È il soffio del vento creatore… ossia dello spirito”.

Per questo, il problema del matrimonio gay ha molto a che vedere con la drammatica assenza del padre. Non è un caso che, nella società francese, attorno alla nuova legge si siano scatenate tante energie, a volte anche inattese, come è accaduto per il grande seguito popolare che ha animato la “Manif pour tous” e la repressione inusitata che essa ha provocato.

Distruggendo l’idea del matrimonio, mediante la norma secondo la quale esso può riguardare anche due persone dello stesso sesso, si è ucciso simbolicamente il ruolo del padre nella famiglia. Si è affermato con la forza della legge che il maschile non può più intervenire a dettare l’ordine naturale delle relazioni sociali. Non può più esprimere il soffio del vento creatore, per dirla con Jung, e non ha più alcuna funzione di guida.

Già da decenni questa mutazione era stata preparata sul piano giuridico. Le leggi sul divorzio introdotte negli anni settanta in tutto l’Occidente, erano state pensate essenzialmente a favore della donna e contro il padre. La possibilità di separarsi liberamente dal coniuge, senza dover fornire motivazioni, e venendo tutelati anche sul piano economico, era stata attuata con lo scopo deliberato, benché non sempre dichiarato, di consentire alla donna di liberarsi dall’autorità maschile, e dunque paterna.

Allo stesso modo, con l’aborto garantito dallo stato, si è voluto in modo esplicito tutelare soltanto la donna, e la sua autodeterminazione sul proprio corpo. Il padre del nascituro è stato nuovamente privato di ogni voce in capitolo, anche sul piano giuridico. Un processo di esclusione che negli ultimi decenni è continuato attraverso l’espulsione fisica, concreta e non solo simbolica, dei padri dai nuclei familiari, grazie alle norme sull’affidamento dei figli che nei fatti continuano a emarginare la figura maschile.

La donna ha così acquisito sulla prole – anche quella non ancora nata – il diritto di vita e di morte che nelle società antiche spettava al padre. Ora che la prima generazione senza padri è diventata adulta (e non a caso tende a rifiutare sia di sposarsi sia di avere figli) l’attacco finale è stato portato al cuore della questione. Una volta privato della differenza sessuale, l’istituto del matrimonio è stato completamente destituito del residuo valore simbolico.
Ciò che è appena avvenuto in Francia per certi versi ha semplicemente sancito ciò che si era affermato da tempo nella vita reale. Anche se nei fatti, lo dimostra lo scarso successo che avevano avuto i vecchi Pacs, la cosa in fondo riguarda una infima minoranza di persone.

Ma i simboli, in questi casi, sono la sostanza. Basti pensare che era principalmente attraverso il matrimonio che il padre donava ai figli – ma anche alla moglie – il cognome. Non era solo una tradizione, ma l’espressione simbolica della funzione di colui che realmente attribuiva a tutta la famiglia il proprio posto nel mondo.
Eppure, in quello che è avvenuto e che potrà ancora succedere, con il suo carico di orrore e di dolore, c’è pure spazio per un messaggio di speranza.
Ha ragione Fabrice Hadjadj a dire che quel che si è verificato in Francia è una grazia. Senza che nessuno se lo aspettasse, un imponente coro di famiglie dove il padre è ancora presente si è levato a testimoniare il proprio rifiuto di rassegnarsi. Un rifiuto che passa per l’esperienza della loro vita, e non è solo una sterile petizione di principio.

Vien da pensare alla lettera a Diogneto, nella quale lo sconosciuto autore dei primi secoli del cristianesimo ancora si meravigliava perché i cristiani “non esponevano i loro figli”.
Non dobbiamo infatti dimenticare che la storia dell’uomo ha conosciuto periodi ben più crudeli di questo. Benché non fosse mai accaduto prima che i figli venissero soppressi non in se stessi, bensì attraverso il loro padre, cioè di colui che avrebbe dovuto garantire loro il passato e il futuro.

Le ultime generazioni, rimaste orfane di padre vivo a causa della disgregazione della famiglia naturale, sono prigioniere di un eterno presente. Senza radici, e dunque senza possibilità di crescere. Ma finché ci sarà qualcuno che richiama tutti all’ordine naturale delle cose, come avvenne ai tempi di Diogneto, allora non ci sarà pericolo che la civiltà volga alla fine.


Articolo pubblicato su Avvenire del 26 aprile 2013 e sul blog dell'Autore: http://finchelalegge.blogspot.it/

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